lunedì 28 gennaio 2013

In trappola

I PESCI VEDONO NELL'ACQUA
MA NON VEDONO L'ACQUA

Mi muovevo lentamente e sapevo che qualcosa non andava. Tutto era diverso, eppure gli altri sembravano vivere indisturbati la loro normalissima vita. Sfoderai un sorriso rassicurante, più per me che per il resto del mondo. Infilai il cappotto e uscii. Mi aspettavo un freddo che penetra le ossa, invece ero come coccolata da una strana sensazione di calore sulla pelle. Riconobbi la canzone in onda alla radio in un negozio di oggetti per la casa, mi intrufolai tra la folla impegnata a scegliere un paio di cuscini nuovi abbinati al copridivano e vagai, perdendo tempo tra le lampade e le sedie da ufficio. Una commessa dalla voce eccessivamente acuta e veloce mi propose l’acquisto di un pouf a forma di pera ideale per la lettura, senza preoccuparsi delle presentazioni. Probabilmente un’espressione molto perplessa si dipinse sul mio volto perché rincarò la dose, velocizzando ancor di più le parole nella descrizione di quell’oggetto immancabile e convenientissimo. Finalmente scorsi una lunghissima chioma di capelli nota e trovai una scusa per abbandonare la commessa. Inizia a chiamare –Chiara? Chiara?! Chiara!

Mi suonava strana quella voce, come se non fosse mia. Mi avvicinai e le toccai una spalla, ma non si voltò né ebbi l’impressione che mi sentisse. Si allontanò, di spalle, e uscì dal negozio con due grandi buste di carta. Per strada sentii di nuovo quel senso di calore provocato da una sorta di abbraccio, uno strato di tessuto che mi avvolgeva tutta intorno. I lampioni emanavano una luce fioca e non riuscivo a distinguere che momento della giornata fosse. Decisi che era ora di cena per assecondare il mio stomaco e varcai la soglia del primo fast food dietro l’angolo. Mangiai con un’insolita lentezza, come nel tentativo di memorizzare quel gusto apparentemente sconosciuto. E bevvi litri d’acqua nella speranza di rinfrescarmi. Camminavo verso casa e il calore continuava ad avvolgermi. I contorni della città erano sfumati, i volti dei passanti affaticati e sfuggenti.

Mi sentivo improvvisamente così sola. Iniziai a correre più veloce che potevo, ignorando le espressioni severe dei passanti. Volevo che quella giornata grigia e insensata finisse in fretta e forse in quel modo speravo di velocizzare il tempo. Mi fermai con le mani sulle ginocchia e il fiatone. Ero accaldata, sudata, ma determinata ad andarmene. Trovai una panchina per riprendere fiato e mi sedetti. Iniziai a provare una sensazione di intensa paura. Cercai il telefono in ogni tasca, ma sembrava impossibile chiamare aiuto. Stesi le braccia lungo i fianchi e tolsi le scarpe sfilandole con i talloni. Ero sopraffatta dalla stanchezza, volevo tornare a casa. Chiusi gli occhi e provai a concentrarmi sull’immagine di casa mia, della mia stanza. Mi bastò riflettere qualche secondo su quello che stavo vivendo, quando un’illuminazione mi colpì come uno schiaffo.

Era l’acqua a rendere tutto così confuso. Acqua ovunque, intorno e sopra di me. Ero sottacqua. Com’era possibile? Come diavolo c’ero finita? La nuova consapevolezza acquisita acuì la sensazione di calore che avevo addosso fino a che mi sentii soffocare. Volevo fuggire, ma le strade erano invase da una folla diretta controcorrente e io non riuscivo a riconoscere la via di casa. Ero persa e sola. Non sapevo quanto ancora avrei resistito in apnea. Come avevo fatto a non accorgermene prima? Le vene pulsavano sotto la pelle, il collo si gonfiava. Le dita erano rosse e insensibili, le gambe tremavano. Non ero più padrona del mio fisico, né in grado di ribellarmi. Chiusi gli occhi e pensai che non c’era più nulla da fare. Le forze vennero a mancare e mi abbandonai a quel tepore consolatorio come se fossi in una vasca da bagno.

Fu così che mi trovarono: abbandonata in un sonno profondo a sognare grandi distese d’acqua, mentre mi trovavo in quell’inferno di fiamme. Stavo lì immobile e inerme, distesa su lenzuola ormai grigie, circondata dal fuoco. Quando recuperai la forza per sollevare le palpebre vidi solo fumo nero e denso intorno al mio letto. Sentii le sirene e capii che erano arrivati a soccorrermi. Ringraziai il cielo. Mi portarono fuori da quel buco nero che aveva inghiottito ogni cosa nella mia stanza. Quando riemersi alla luce del giorno e all’aria aperta, mi sembrò ti tossire l’anima. Rischiavo la vita per colpa di un cortocircuito causato da un maledetto scaldabagno. Il destino mi aveva giocato un brutto scherzo. Sarebbe stato difficile in futuro cancellare quella notte dalla mia memoria. Avrei ricordato quell’incubo per il resto della mia vita. E quell’incendio, per sempre.


Un pizzico di terrore nel racconto di oggi. Cambio genere radicalmente per non annoiare, ma soprattutto non annoiarmi. La sensazione più comune nei nostri incubi, essere in trappola, si rivela specchio della realtà. O viceversa? L'affascinante mondo onirico resta un mistero da scrutare nella finzione tanto quanto nella quotidianità.

4 commenti:

  1. Bello spero che questa storia possa continuare =)

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  2. Che triste, ma per esperienza personale in ambito musicale le canzoni più belle della storia sono formate da storie ed emozioni tristi, sono scritte con accordi ti tonalità minori, forse sarà il caso, non lo so ma le cose da raccontare sono sempre le nostre paure e le nostre lreoccupazioni o i nostri problemi, personali o sociali ma sempre problemi. Forse è così anche nella letteratura.

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  3. Concordo! Non a caso un mostro sacro come Shakespeare (e non solo lui) sosteneva che "Art comes from pain"... La difficoltà maggiore però nella scrittura e nella musica credo sia trovare un giusto equilibrio per non finire a piangersi addosso piuttosto che far apprezzare la profondità e lo spessore di sentimenti come paura e tristezza.

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